The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom – Recensione di un capolavoro generazionale
Ed eccomi qui, a distanza di due mesi abbondanti dalla release ufficiale, quasi come se non avesse nemmeno più senso scrivere la recensione, ormai. Eppure sento il bisogno irrefrenabile di parlarne, di raccontarvi quello che ho dentro; tutto ciò che mi ha lasciato quest’esperienza meravigliosa, che si colloca inevitabilmente tra le migliori in assoluto nonché tra le più incredibili ed eclatanti che io abbia mai vissuto in circa ventisette anni col pad tra le mani. Perché sì, The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom è questo e molto, ma molto di più. E siccome qui su Pushbutton.it non ce ne frega un cazzo di tempistiche da rispettare, scadenze e quant’altro, ecco che il mio verdetto arriva in estremo “ritardo” (tra virgolette; proprio perché in realtà non mi sono mai posto una scadenza, come vi dicevo) rispetto alla tabella di marcia.
D’altronde il mio intento non è recensire l’opera Nintendo per invogliare qualcuno ad acquistarla oppure no, né tantomeno convincervi del perché sia a mio avviso IL capolavoro di questa generazione – e della scorsa –; almeno per ora. No, io sono qui semplicemente perché voglio raccontarvi la mia esperienza e il mio vissuto con la produzione, andando ad analizzarla nel dettaglio per enfatizzare tutti i suoi molteplici aspetti, incredibili e rivoluzionari (ma comunque senza spoiler, tranquilli). Insomma, per dire la mia, a prescindere da tutto, da chi possa essere d’accordo o in disaccordo con ciò che andrò ad esprimere. Bene, se siete pronti mettetevi comodi… il viaggio ha inizio.
Il miglior prologo della serie Zelda… No, uno dei migliori inizi della storia dei videogiochi
Tralasciando che per motivi personali sia stato difficilissimo avviare il titolo, quello di The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom è senza dubbio alcuno l’inizio migliore che si sia mai visto nella trentennale saga creata da Shigeru Miyamoto. Dalle avventure dietro i boschi di casa sua ne è passata di acqua sotto i ponti e la direzione intrapresa da Eiji Aonuma ha finalmente trovato una sua identità caratteristica, non più vittima dell’ombra del Maestro; quell’ombra che attorniava ogni produzione rilasciata successivamente all’eterno capolavoro che è Ocarina of Time. Intendiamoci, sono usciti episodi superbi (non per altro The Wind Waker resta ad oggi ancora il mio capitolo preferito), tuttavia il confronto con la pietra miliare del 1998 era pressoché inevitabile, e per quanto gli sforzi di Nintendo fossero esemplari, quella vocina nella testa “non è Ocarina…” era lì, sempre vivida e intensa.
Con Breath of the Wild, Zelda ha finalmente reciso il suo collegamento col passato (ok, ho inevitabilmente citato A Link to the Past; ma ricordatevi che questo nome è una menzogna rispetto al titolo originale), spiccando il volo con tutte le sue forze ed una nuova identità, senza ovviamente perdere lo spirito e l’essenza che ha contraddistinto da sempre il brand. Trattandosi della prima iterazione appartenente a questo nuovo ciclo, molti degli elementi di spessore erano ancora nella loro forma embrionale, risplendendo così in maniera definitiva proprio in Tears of the Kingdom. Quel Tears of the Kingdom che ha messo in scena un prologo esemplare, tra i più maestosi ed epici di sempre; qualcosa in grado di stregarmi come nessun’altra opera è mai riuscita a fare. Il connubio perfetto tra interazione ludica, regia e puro game design. Già il tutorial, senza dire nulla e solamente col mero gameplay, mette nelle mani del videogiocatore tutti gli strumenti necessari per apprendere la filosofia e le qualità di questa immensa produzione fatta di ingegno, originalità, spettacolarità ed epicità.
Muovere i primi passi all’interno di Tears of the Kingdom significa venir travolti da un turbinio di emozioni di una potenza devastante, accompagnati da alcuni momenti tra i più alti mai visti all’interno del medium, con una colonna sonora capace di marchiarsi a fuoco nell’animo. È opinione abbastanza diffusa che l’impatto di Breath of the Wild, vista l’assoluta novità di quando uscì, resti comunque più travolgente. Io non sono però di questo avviso e credo che ciò che riesce ad esprimere l’ultima fatica targata Nintendo EPD nelle sue prime ore di gioco vada assolutamente oltre. Dimostra infatti la sua immensa grandezza proprio in quanto sequel diretto, e riuscire con stessa formula e linguaggio a ricreare l’atmosfera che permea le battute iniziali con un’intensità tale non era affatto scontato.
Ritrovarsi nei cieli di Hyrule dopo gli straordinari avvenimenti dell’introduzione ammirando un panorama mozzafiato, tuffarsi nel vuoto ed esplorare l’isola per apprendere mano a mano le novità offerte dai nuovi poteri del braccio di Link e le svariate possibilità aggiunte in questo capitolo – che fanno sembrare quasi minuscolo il predecessore – fino alla discesa sulla terra, non ha prezzo. Vi sono degli intermezzi e delle scene così evocative che mi è impossibile descrivervele, ma c’è da restare a bocca aperta per svariate ore (e ci resterete ancora dopo, sino ai titoli di coda).
Libertà totale è la parola chiave
Già con il prequel l’intento di Aonuma, Fujibayashi e di tutto il team Nintendo EPD consisteva nell’offrire al videogiocatore la più totale libertà d’azione ed esecuzione, in maniera tale che ogni videogiocatore potesse scrivere la sua storia piuttosto che seguire un percorso delineato e ben preciso. Infatti sia in Breath of the Wild che in Tears of the Kingdom ognuno di noi svolgerà cose diverse per arrivare all’obiettivo comune, e tale peculiarità è resa al meglio in quest’ultimo che riesce a raccontare una storia molto più efficace rispetto a quella del suo predecessore, proponendo momenti e situazioni di maggior impatto emotivo e un’interazione più peculiare con il linguaggio videoludico.
Sebbene vi siano delle scelte un pelino discutibili come cutscene che si ripetono più volte in determinati momenti dell’avventura relegati ai saggi, NPC che riconoscono Link per le gesta del precedente episodio ed altri no (stramba incongruenza, soprattutto se consideriamo la cura maniacale riposta per coloro che invece si ricordano del protagonista) e la (quasi) totale sparizione di tutte le strutture ancestrali e delle Bestie Divine (quelli che noi conosciamo – in errore – come Colossi Sacri) senza una precisa spiegazione, la narrazione di Tears of the Kingdom rimane comunque potente ed emerge non solo tramite il semplice racconto, ma anche e soprattutto attraverso l’intero mondo di gioco. Tutto – ed intendo proprio tutto, compresi gli elementi apparentemente più stupidi – si incastra come un tassello che completa il grande mosaico di questa splendida avventura. Pensare di aver fruito della storia completando la sola main quest vi farebbe cadere in errore; il consiglio è dunque quello di lasciarsi completamente travolgere e trasportare dall’esperienza, perdendosi nel suo vasto open world senza tralasciare nulla. Persino il dettaglio più marginale può arricchire la componente narrativa, approfondendo la cosiddetta e famigerata lore del titolo.
A dare maggior lustro all’opera vi è poi la presenza del villain per eccellenza (quantomeno per la longeva serie Zelda): Ganondorf, scritto e delineato davvero con considerevole spessore, nonostante i vari escamotage per farlo apparire ed entrare in scena. Per la natura stessa del titolo le sue apparizioni e la sua presenza sono purtroppo relegate a momenti specifici e non lineari dell’avventura, sacrificando inevitabilmente qualcosina in termini di ritmo ed intensità. Ciononostante siamo ben lontani da una gestazione mal riuscita come quella vista in Twilight Princess dove l’antagonista aveva sì un’ottima caratterizzazione, ma al tempo stesso un esiguo spazio in cui poterla mettere in atto. Al contrario, invece, Ganondorf in Tears of the Kingdom trova modo di esprimersi al meglio, rivelandosi tra le migliori comparse nella saga (sempre una spanna sotto a The Wind Waker, però). L’unico appunto, tornando all’escamotage succitato, è relegato al sentire meno la partecipazione nel gameplay presente, ma come vi accennavo era davvero difficile fare diversamente volendo mantenere al contempo una libertà di approccio totalitaria.
Rispetto a Breath of the Wild, d’altronde, la Hyrule di Tears of the Kingdom è ancora più viva e pulsante. Non solo vi saranno eventi significativi che andranno a mutare interamente particolari luoghi di interesse, bensì pure le cose da fare, le missioni secondarie e la routine comportamentale degli NPC risultano adesso più variopinte, garantendo al videogiocatore un coinvolgimento di gran lunga più intenso all’interno dell’esperienza, nonché maggior partecipazione nella (fittizia) realtà del suo mondo. Ogni elemento, gli svariati ed inediti collezionabili da scovare, qualsiasi interconnessione, servono per donare all’esplorazione un senso di appagamento, rendendo questo viaggio non solo differente per tutti, ma anche e soprattutto indimenticabile. Persino le linee di dialogo si adattano a seconda della situazione, tant’è che dei personaggi potrebbero invitare Link ad attendere che smetta di piovere prima di propinargli qualcosa da fare (giusto per fare un banale esempio).
Un braccio per domarli, un braccio per trovarli, un braccio per ghermirli e nel buio incatenarli
Il nuovo braccio di Link è al centro della scena. Si tratta infatti non solo di un elemento cruciale per il gameplay di Tears of the Kingdom, ma soprattutto del racconto. Una volta ottenuto ci permetterà di sfruttare i nuovi poteri quali Ultramano, Compositor, Ascensus e Reverto (non prima di averli sbloccati, ovviamente) che danno una vera e propria svolta rispetto alle abitudini passate. Queste nuove abilità, unite ai particolarissimi e bizzarri congegni Zonau che è possibile ottenere interagendo con marchingegni simil gashapon machine, cambiano totalmente sia l’approccio risolutivo con i puzzle che durante la pura esplorazione. Ogni situazione può essere superata sì secondo un metodo diciamo prestabilito dai game designer, ma in realtà tutto è realizzato in maniera tale che il videogiocatore venga stimolato creativamente per mettere alla prova il suo ingegno. “Rompere” il gioco non rasenta dunque un cattivo design, ma è proprio la regola; ciò che vogliono gli sviluppatori.
Non potete nemmeno immaginare quante sequenze io abbia superato sfruttando Reverto e Ascension in modi bizzarri e creativi o come alcuni puzzle li abbia quasi plasmati a modo mio sfruttando tutti gli elementi in mio possesso in quel preciso momento. Questo perché in Tears of the Kingdom vige un unico e solo principio: se sei riuscito anche solo a pensarlo, significa che puoi farlo. Fantasia e creatività sono le colonne portanti dell’intera esperienza. Certo, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e non sempre mettere in atto un’idea è tanto semplice quanto immaginarla, però in linea di massima (quasi) tutto è possibile. L’unico vero limite è determinato esclusivamente da noi stessi. Con Ultramano possiamo prendere e spostare vari oggetti (questa volta non solo di metallo come con Kalamitron) ed in più possiamo agganciarli ad altri per costruire svariate cose; Compositor torna utile per combinare ad armi e scudi ulteriori equipaggiamenti, corni nemici o gli stessi congegni Zonau per inventare nuovi approcci in combattimento; Ascensus ci permette invece di percorre lunghe distanze verso l’alto, tanto che è possibile addirittura fuoriuscire dall’altro lato di una parete; Reverto, infine, permette a tutti gli oggetti che hanno delle regole fisiche all’interno del gioco di tornare indietro nel tempo, garantendo così svariate opportunità dal punto di vista videoludico.
In The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom vi è inoltre il ritorno dei dungeon, per la felicità dei fan. Pure qui c’è tuttavia da fare alcune piccole ed importanti premesse: se con ‘ritorno’ vi aspettate (o aspettavate, considerando che molti ormai ci avranno giocato) qualcosa nello stile dei classici Zelda, l’eventuale delusione è colpa dell’aspettativa e non dei dungeon in sé. In un prodotto dove vi è una libertà immensa quanto avrebbe senso una struttura lineare con oggetti chiave e percorsi prestabiliti? Ve lo dico io: nessuno. Nintendo EPD ha logicamente mantenuto la stessa filosofia alla base dell’esperienza all’interno di essi, evolvendo quindi il concept delle Bestie Divine in termini di libertà risolutiva e di approccio in strutture che si avvalgono però di un level design, di puzzle e situazioni più in linea con i vecchi dungeon della saga Zelda. Insomma, la fusione perfetta tra le due caratteristiche che mette nelle nostre [ultra]mani infinite possibilità di approccio e, in alcune circostanze, anche molta più azione.
Non mancheranno inoltre i semi Korogu e i sacrari, ancora più avvincenti e particolari rispetto a come avevamo imparato a conoscerli in Breath of the Wild. I (puzzolenti) semi torneranno utili per espandere le varie borse di armi, scudi e archi che, ricordiamo, anche qui sono soggetti a usura e conseguenziale distruzione; una meccanica che funzionava egregiamente nel predecessore e qui limata ed ulteriormente perfezionata proprio grazie all’esistenza di Compositor (tuttavia dovete abbinare con intelligenza le armi quasi distrutte, altrimenti non darete loro nuova “vita”). Molti dei modi per scovare un Korogu ritornano direttamente dal prequel, ma al contempo ve ne saranno di inediti ed entusiasmanti tra cui alcuni che vi faranno sfruttare i nuovi poteri del braccio di Link in maniera molto originale. I sacrari hanno invece il medesimo compito, ovvero permettere al protagonista di diventare sempre più forte attraverso la ricompensa ottenuta al loro interno da spendere per incrementare cuori o barra del vigore (utile per scalate, scatto e uso della paravela). A differenza del predecessore, la qualità dei sacrari qui è ancora più alta, senza contare che molti di essi fungono quasi da materiale didattico per farci apprendere svariati modi di utilizzare l’Ultramano e i congegni Zonau; ulteriore prova di come debba essere un valido e funzionale game design.
Dai trailer avrete inoltre capito che Link avrà anche dei compagni di viaggio. Non starà a me dirvi come, quando e in che occasione essi vi aiuteranno. Sappiate soltanto che grazie a loro potrete sfruttare ulteriori abilità, sebbene la loro gestione poteva forse essere curata un pelino meglio. Rincorrere un companion per eseguire una particolare mossa non è proprio il massimo, seppur venga in nostro aiuto il fischio per richiamarli (non utile solo per i cavalli). Il combat system bene o male ricalca il modello del suo predecessore con la possibilità di assestare semplici attacchi con moveset differenti a seconda della tipologia d’arma equipaggiata poiché pure nel sequel in questione la varietà in combattimento è garantita dallo sfruttamento dell’ambiente circostante e, in questo caso, addirittura dai congegni Zonau e dai materiali che è possibile lanciare manualmente o combinare alle frecce. La differenza la fa insomma, come al solito, la fantasia. I nemici basilari sono stati leggermente rivisitati e sono ora muniti perfino di corni che, come dicevamo, possono essere applicati alle armi tramite Compositor (aggiungendo maggior linfa, strategia e varietà agli scontri); in più ritroviamo nuove spietate creature ed ulteriori boss e mid-boss che vanno ad arricchire il bestiario del gioco (punto debole di Breath of the Wild), il quale si rivela finalmente un po’ più variegato. Non da meno le boss fight principali che, a differenza del prequel, garantiscono adesso degli scontri decisamente più avvincenti ed epici, nonché un elemento risolutivo più in linea con i vecchi capitoli, pur senza il rispettivo strumento del dungeon, andando a correggere un altro piccolo neo del prequel e raggiungendo l’apice nella battaglia finale che mette in scena una delle sequenze più belle e corali dell’intera serie.
Hyrule non è mai stata così bella
Uno dei principali motivi che aveva fatto indignare molti prima dell’uscita del gioco era proprio Hyrule. Si era già bollato Tears of the Kingdom di essere un more of the same con mappa riciclata e qualche isola volante. Poco importa se si estende su tre livelli che sono cielo, terra e sottosuolo senza tempi di caricamento e totale soluzione di continuità; la sentenza era stata già emessa. Sarebbe tuttavia lecito parlare a opera quantomeno conclusa, specie per rendersi conto che il mondo condivide sicuramente molto con quello del predecessore (la planimetria è quella), ma che al contempo è contraddistinto da una marea di differenze ed è impossibile riportarle tutte (verrebbe l’elenco della spesa). Hyrule adesso funge inoltre da punto di contatto con il cielo e con i baratri che conducono nel sottosuolo. Quest’ultimo, di primo acchito può trarre in inganno ed apparire come vuoto ed inutilmente esteso, ma pian piano comincerete ad esplorarlo in modi sempre diversi rispetto alle fasi iniziali in cui eravate sprovvisti di risorse e quant’altro, e tutto cambierà.
Se poi vogliamo dire che è tutto uguale a Breath of the Wild, allora anche A Link Between Worlds era identico ad A Link to the Past (premesso che con il capolavoro 3DS ero caduto anch’io in errore basandomi sui trailer). In realtà le differenze sono marcate, in qualche luogo più che in altri, ma ciò che davvero cambia è l’approccio e il modo in cui si esplora la nuova Hyrule di Tears of the Kingdom, senza contare che è sempre piacevole recarsi in posti che conoscevamo benissimo nel predecessore e scorgere i cambiamenti, minimi o meno che siano, ma soprattutto tenendo in conto ciò che dicevo nelle battute iniziali di questa recensione: tutto è più vivo che mai, di conseguenza ci si sente parte integrante dell’intero ecosistema dovendo interagire con molte più cose rispetto a prima. Aggiungiamo poi che oltre a quanto indicato vi siano pure le caverne che non si rivelano soltanto luoghi in cui trovare emblemi di Rospettro e risorse varie (o addirittura qualche sacrario), ma anche punti in cui sfruttare Ascensus. Due sono quindi le cose se si afferma che non cambia niente rispetto a Breath of the Wild e che sia tutto riciclato: o si è in malafede oppure è stato semplicemente approcciato male il prodotto. E onestamente non ricordo lamentele del genere quando abbiamo giocato Jak 3 che riproponeva Haven City di Jak II (oltre alla nuova location desertica) o ai due Grand Theft Auto, Vice City Stories e Liberty City Stories, che ci facevano ritornare nelle città che avevamo imparato ad amare in GTA III e Vice City.
D’altronde non conta l’ambiente, bensì come si interagisce con esso, e in Tears of the Kingdom, tralasciando tutte le novità citate poc’anzi, l’interazione è del tutto differente rispetto a quella di Breath of the Wild, oltre ad esserci una verticalità di gran lunga più estesa. L’errore sta proprio nel viverlo come se si stesse giocando ancora al prequel (o ad una sua estensione), siccome Tears of the Kingdom ha le sue di regole. L’unica criticità veramente da evidenziare riguarda alcune isole del cielo riciclate un po’ troppo spesso, ma anche in questa circostanza si parla di un neo trascurabile considerando comunque che ve ne siano moltissime altre che ci fanno affrontare situazioni uniche, nonché quelle in cui vi sono relegate alcune fasi della trama principale (una di esse tra le più spettacolari non solo dell’opera, ma di sempre). Il cielo ha inoltre ulteriori collezionabili che è possibile trovare soltanto da queste parti, per cui qualche isola ripetuta disturba, ma non più di tanto. Chiaramente pure nel sottosuolo vi sono tantissime attività che è possibile svolgere solamente qui, senza contare che alcune particolari risorse utili per determinate circostanze non si trovano altrove. Ogni piano del vastissimo mondo di Tears of the Kingdom ha le sue unicità, sia in termini di cose da fare che di approcci e materiali da scovare. Il modo in cui poi il gioco ci permette di raggiungere da un momento all’altro uno di questi piani senza che vi siano invasivi tempi di caricamento ha dell’incredibile e fa abbastanza ridere ritrovare tutto ciò in un prodotto per Nintendo Switch e non nelle attuali console next-gen.
Il nuovo Zelda è la chiara dimostrazione che la sola potenza non basta per realizzare qualcosa di rivoluzionario. Nessun titolo PlayStation 5, nonostante le evidenti capacità dell’hardware e il tanto chiacchierato SSD per i tempi di caricamento, propone una roba del genere. E non perché non sia possibile, intendiamoci, ma perché nessuno ci era ancora arrivato. L’ironia sta proprio nel fatto che ci abbia pensato la grande N nonostante un hardware che comincia a sentire il peso dei suoi anni. Un peso che però non si fa minimamente sentire (se non per qualche lievissima sbavatura di natura tecnica) quando muoviamo i nostri passi nelle immense lande di Tears of the Kingdom con la consapevolezza che tutto quello che ci passa per la testa è possibile. In fondo la rivoluzione non sta solo nei tre macro-livelli con soluzione di continuità e zero tempi di caricamento, ma anche nel modo in cui il gioco poi ci fa interagire attraverso di essi e per come la fisica viene ludicamente applicata per affrontare qualsiasi situazione. Già nel prequel le possibilità offerte da questo punto di vista erano avveniristiche, ma l’ultimo capitolo alza ulteriormente l’asticella permettendoci davvero di superare tutto nella maniera che più ci aggrada. Un concept che ricorda nemmeno troppo vagamente ciò che offriva Banjo-Kazooie: Nuts ‘n’ Bolts di Rare dove la costruzione dei veicoli ci permetteva di risolvere un obiettivo a modo nostro, ma qui applicato in un contesto open world e, di conseguenza, con la massima espressione della libertà.
Che esperienza sarebbe però senza una soundtrack di spessore? Come in Breath of the Wild, pure Tears of the Kingdom preferisce che ad essere protagonista sia l’ambiente circostante con i suoi silenzi e attraverso sound ambientali, proponendo giusto dei leggeri accompagnamenti musicali durante l’esplorazione. La peculiarità, così come nel predecessore, è la dinamicità della musica che funge da vero e proprio elemento interattivo, aiutandoci anche a raggiungere un luogo seguendo a conti fatti l’intensità del suono. Vi sarà addirittura una quest secondaria in cui saremo chiamati a ritrovare dei musicisti, e seguire le melodie emesse dai loro strumenti si rivelerà la chiave per scovarli. La situazione si capovolge nel momento in cui il titolo vuole farci vivere dei momenti unici nell’arco dell’avventura: che sia tramite scene evocative o momenti ludici memorabili, in quelle occasioni prenderanno il sopravvento brani di un’intensità stratosferica, capaci di caratterizzare al meglio ogni singolo istante di questa meravigliosa esperienza, dando vita a molteplici emozioni ed esaltando qualsivoglia situazione; da quella epica alla più malinconica sino ad altre decisamente adrenaliniche. Inoltre devo segnalarvi che le nuove tracce dei sacrari mi hanno positivamente sorpreso grazie alle loro sonorità mistiche che mi hanno portato quasi a rivivere le vibes di Akira di quel genio di Katsuhiro Outomo, ricreando un’atmosfera senza precedenti ed enfatizzando con un alone di mistero quelle atipiche strutture.
Tears of the Kingdom migliora inoltre anche i menu (seppur senza stravolgerli troppo) e tutto quello che concerne il Diario di Viaggio, questa volta più dettagliato e con molte più voci al suo interno, tant’è che stavolta le subquest sono suddivise in minisfide e sfide secondarie, proprio per distinguere le più importanti dalle altre. Un mondo più vasto e sconfinato equivale a tantissime attività in più per infinite ore di gioco, ma senza mai proporre riempitivi inutili o poco premiali dal punto di vista della completezza. Ogni cosa, la più stupida financo, ha sempre una sua utilità; colpisce il fatto che tutto ciò che è secondario in realtà non lo è mai per davvero, poiché arricchisce la componente narrativa dell’opera e tutte le sue molteplici sfaccettature. D’altronde non vi è solo la trama principale e quello che è necessario fare per giungere ai titoli di coda, ma un intero universo narrativo fatto di storie, personaggi e di nostre possibili interazioni con essi.
CONCLUSIONI
Overall
-
GRAFICA - 10/10
10/10
-
GAMEPLAY - 10/10
10/10
-
AUDIO - 10/10
10/10
-
LONGEVITÀ - 10/10
10/10
IN SINTESI
The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom è un capolavoro assoluto; un’opera d’arte totale che sfrutta il linguaggio videoludico per esprimere all’ennesima potenza tutto ciò che questo medium può raccontare e far vivere attraverso l’utilizzo di un controller. Esperienze di questo calibro sono rare e per me è difficile riuscire anche solo ad immaginare un qualcosa di meglio. Il titolo Nintendo non solo setta nuovi standard nel genere degli action adventure (ancora una volta), ma rivoluziona gli open world affinando e perfezionando la formula nata con Breath of the Wild e migliorando ogni aspetto di quest’ultimo, perfino nella cucina (che torna pure in questo capitolo). Un vero e proprio punto di riferimento per l’intera industria videoludica, nonché un mero manuale di game design.
Tears of the Kingdom non è esente da difetti, ma sono così marginali, minuscoli ed insignificanti che non vanno assolutamente a minare la sua immensa caratura. Stilisticamente si avvale di una direzione artistica sublime che risalta tutta la bellezza estetica di cielo, terra e sottosuolo, con un livello di dettaglio maniacale e un utilizzo dei colori semplicemente perfetto. Che sia in portatile (magnifico su Switch Oled) o in TV, ci ritroviamo dinanzi a pura gioia audiovisiva. La colonna sonora, pur non vantando i lavori di Koji Kondo, si rivela ancora una volta impeccabile per ogni circostanza di gioco e il gameplay è apoteosi continua; mai un attimo di noia subentrerà durante l’avventura in quanto vi è sempre qualcosa capace di sorprendere o stimolare le nostre partite.
Vivere un’esperienza del genere è anche un’arma a doppio taglio poiché tutto quello che giocheremo dopo ci sembrerà di scarso livello. E basterebbe soltanto questo per capire che ci ritroviamo dinanzi ad una pietra miliare; un titolo seminale, capace di collocarsi negli annali di questo medium, ricordandoci come si realizza un videogioco. Difficile pensare ora al futuro di Zelda perché è impossibile pensare di poter fare di meglio; ma sono altresì sicuro che, quando sarà il momento, Nintendo riuscirà a sorprenderci ancora una volta. D’altronde dopo Breath of the Wild mai avremmo immaginato che la grande N si superasse in questa maniera.
Non fraintendetemi, il prequel rimane un titolo di grandissimo spessore e che consiglierei vivamente a tutti, specie prima di avventurarsi nella Hyrule di Tears of the Kingdom, ma al contempo – e non per suoi demeriti – quasi ci si dimentica della meraviglia che è stato poiché il suo successore si spinge davvero troppo oltre, raggiungendo dei risultati pazzeschi con una qualità decisamente inarrivabile. Tears of the Kingdom è emblema del videogioco e se con Breath of the Wild avevo dei dubbi, qui lo dico senza esitare: ci troviamo dinanzi al miglior The Legend of Zelda mai realizzato.
Appassionato di videogiochi sin da piccolo, al punto tale da portarlo nel tempo a scrivere per circa dieci anni per il settore videoludico. Dopo aver lasciato tutte le testate per le quali scriveva, eccolo intraprendere una nuova avventura sulle pagine di Pushbutton.it, piccola realtà nata dalla sua mente e quella di due grandi compagni di viaggio, nonché cari amici: Gennaro Schiavelli e Antonio Rodo. Retrogamer incallito e musicista, ama la pizza e la cultura nipponica ed è pronto a raccontarvi e condividere tutto quello che gli passa per la testa.