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Stiamo perdendo di vista il concetto di “more of the same”

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Quando viene mostrato un progetto, inevitabili sono i commenti che lo accompagnano. Tra chi, carico di hype ed entusiasmo, esterna tutta la sua incontenibile esaltazione anche solo per un semplice logo (vi ricorda qualcosa Metroid Prime 4?) a chi ha da ridire persino se gli fanno il trailer della vita, c’è un tipo di critica che ormai si perpetua e segue quasi inevitabile ad ogni annuncio: “eh, ma è un more of the same”. Ne parlavo proprio ultimamente con i miei amici e instancabili colleghi, Gennaro e Rodo (sì, lui non ha un nome), mentre ci si confrontava su quanto visto in merito a The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom e i commenti letti in giro. Qualcuno asserisce che non sia altro che una mod di Breath of the Wild, altri che sia semplicemente uguale al predecessore, con la stessa mappa e qualche isoletta nel cielo; pertanto l’opinione quasi comune sembrerebbe quella dell’ennesimo caso di more of the same. Ma cosa si intende con more of the same? Siamo sicuri di affibbiare alle opere giuste quest’appellativo?

Riflettevo quindi sulla definizione in questione e quanto oggi siamo diventati tutti dei gran rompicoglioni. More of the same significa grossomodo ‘sempre lo stesso’ e viene utilizzato nella maggioranza dei casi con accezione negativa per criticare il sequel di un prodotto e la rispettiva mancanza di idee e creatività. Quando appunto ciò che si ha tra le mani non è quasi per nulla differente dal suo prequel, non presentando nulla di realmente innovativo o che faccia davvero la differenza; lasciando provare non solo la sensazione di déjà vu, ma anche la consapevolezza che l’opera non sia all’altezza di quella precedente, calando persino nella qualità.

More of the same

A grandi linee è questo il caso di more of the same più eclatante e negativo, l’unico che gli appassionati sembrerebbero conoscere. Tuttavia non è sempre così; non sempre il nuovo capitolo di una serie che non cambia pelle e rimane ancorato alle sue meccaniche ormai consolidate è per forza di cose qualcosa di poco valido e da non tenere in considerazione. D’altronde, volendo citare l’allenatore serbo, Vujadin Boškov, “squadra che vince, non si cambia”. Chiaramente noi tutti siamo più inclini alle novità assolute, ai cambiamenti radicali; sono quelli che tendenzialmente ci fanno esaltare (ma talvolta anche incazzare… o abbiamo forse dimenticato l’accoglienza di The Legend of Zelda: The Wind Waker quando venne mostrato sulle riviste del settore, ai tempi?). Non si può però pretendere che questo avvenga ad ogni iterazione, specie se i sequel di un’opera arrivano sul medesimo hardware. Due dei casi più recenti etichettati come more of the same ancor prima che venissero rilasciati sono God of War: Ragnarök e Tears of the Kingdom. Il primo di questi è poi uscito (tra l’altro lo dovrei ancora recensire…) e, nel bene o nel male, abbiamo potuto tirare le nostre conclusioni, ma l’altro? Un titolo di cui volutamente Nintendo ha mostrato il minimo indispensabile, già possiamo bollarlo come more of the same?

Tralasciando che per me nemmeno Ragnarök è a conti fatti un more of the same, sono del parere che bisognerebbe comunque aspettare di avere qualcosa di concreto e tangibile tra le mani prima di esporsi e sputar sentenze. Ed è proprio con le opere targate Santa Monica Studio e Nintendo che voglio arrivare al dunque di questa mia riflessione e sul perché stiamo perdendo di vista il concetto di “more of the same“. Di Zelda non posso parlare siccome mi è impossibile farlo con criterio considerando il materiale che abbiamo visto sino ad ora (davvero troppo poco per proferir qualsiasi parola), ma di God of War sì. Perché secondo me non è un more of the same? Perché fa semplicemente bene il suo lavoro di sequel. Che sia più o meno valido del capitolo 2018, Ragnarök resta un prodotto di qualità; di gran qualità, aggiungerei, nonostante alcuni difetti importanti e alcune cazzatine di game design di cui vi parlerò meglio in separata sede. De facto implementa una serie di novità fantastiche per la nuova formula del brand, migliorando pure svariate criticità del predecessore ed introducendo una varietà artistica di gran lunga più corposa, considerando che vi sono molte più ambientazioni e luoghi da esplorare. Cosa doveva fare di più? Non si poteva di certo pretendere che il gioco avesse proprio modelli di animazioni inediti e completamente rifatti, motion capture o addirittura un nuovo engine. Di conseguenza il feeling non è mutato moltissimo (semmai è migliorato) e pertanto può dare la sensazione di more of the same. Tralasciando che, qualora lo fosse, non per forza è qualcosa di negativo (come ribadito qualche riga sopra), ma se lo è God of War: Ragnarök allora tutto è more of the same. Perché non l’abbiamo gridato anche ai tempi quando uscì God of War II su PlayStation 2? Seguendo lo stesso identico ragionamento, pure quello doveva esserlo; addirittura tutta la serie “classica” non sarebbe altro che un more of the same del primo immenso e titanico God of War (ancora oggi il migliore della saga, per quanto mi riguarda).

More of the same

Ecco perché si sta perdendo a mio avviso il concetto di “more of the same“: pretendiamo troppo. Appena non vediamo delle modifiche sostanziali a tutto l’impianto ludico, tecnico e artistico di un’opera, cominciamo a gridare allo scandalo ancor prima di giocarci effettivamente. E allora è tutto un more of the same. Basandoci sull’impatto e sulle apparenze lo erano anche i sequel di Crash Bandicoot, di Spyro the Dragon, di Ratchet & Clank, di Tomb Raider, di Syphon Filter, di Uncharted, oppure lo stesso Soul Reaver 2 (che, pur uscendo su PS2, sembrava quasi un gioco della precedente generazione – d’altronde sarebbe dovuto essere un unico grande titolo), i capitoli 3D di Gex, Pandemonium 2, Banjo-Tooie, Resident Evil 3: Nemesis (ok che era quasi più un’espansione del 2, ma di sicuro non un more of the same), The Legend of Zelda: Majora’s Mask… Devo proprio continuare? Non erano tutti Final Fantasy VII, VIII e IX che risultavano molto diversi tra loro, pur mantenendo l’essenza della serie e le tipicità del brand di appartenenza. Qualcuno potrebbe perciò obiettare che anche questi siano usciti sullo stesso hardware, eppure sono al contrario parecchio differenti. È vero, ma non sono sequel diretti tra loro, ergo ognuno di essi ha potuto puntare ad una direzione completamente divergente rispetto agli altri. Un Crash Bandicoot: Warped – così come God of War: Ragnarök e The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom – era invece un sequel diretto del nostro amato peramele, e fosse uscito di questi tempi sicuro qualcuno avrebbe avuto da ridire, etichettandolo come more of the same. Altri casi di sequel diretti rilasciati sulla stessa piattaforma che presentano notevoli cambiamenti potrebbero essere Jak II: Renegade rispetto a Jak and Daxter e Prince of Persia: Warrior Within nei confronti di The Sands of Time. Al contempo, però, i rispettivi terzi episodi di questi due capitoli – Jak 3 e The Two Thrones – presentano già molte più similitudini con i propri predecessori.

A tal proposito voglio fare un giochino con voi: di seguito metterò le immagini di vari titoli con i rispettivi sequel diretti, giusto per far notare come ad un primo impatto potrebbero sembrare addirittura lo stesso identico gioco. Questo per dimostrare come ai tempi non ci si fissasse troppo con tali sottigliezze e ci si godesse un po’ di più la nostra passione, ma soprattutto quanto oggi verrebbero etichettati probabilmente come dei more of the same ad un fantomatico annuncio. A voi.

Tenete ovviamente conto che la qualità degli screenshot è variabile poiché sono tutti presi dal web in formati e risoluzioni differenti.

Con il primo anche un occhio meno pratico nota che c’è un divario, ma gli altri due davvero presentano tutte queste differenze solo a guardarli? Senza conoscerli, credo un po’ tutti penseremmo che siano due livelli dello stesso identico gioco.

 

 

A differenza di Crash Bandicoot, qui forse è ancora più difficile notare le diversità tra i tre giochi. Se qualcuno confondesse il tutto come tre mondi di un unico titolo, beh… non sarebbe così anormale.

 

 

Siamo ancora in casa Insomniac e credo che anche in questo caso, senza il nome delle produzioni in didascalia, per uno che non conosce la serie sarebbe difficile capire quale sia il primo, quale il secondo e quale il terzo.

 

 

Nel caso in questione abbiamo addirittura la stessa mappa (Haven City), proprio come la Hyrule di Tears of the Kingdom. Eh, allora more of the same! Ma guarda che in Jak 3 c’è il deserto. Sì. come in Zelda c’è il cielo, sempre more of the same rimane. Grossomodo è questo il concetto, e invece i due Jak sono esperienze ovviamente simili e complementari, ma differenti.

 

 

Qui stavo facendo confusione pure io: cercavo uno screenshot di Super Mario Galaxy e mi appare quello del 2, ma in quel momento vado per salvarlo e nemmeno ci penso che non sia del primo; me ne sono accorto quando l’ho guardato meglio. Wiimote alla mano, però, Galaxy 2 non è assolutamente un more of the same; poi che entrambi i titoli possano dare l’idea che si potesse comprimere tutto in un’unica grandissima avventura e che quasi sia stato splittato in due opere, altro discorso. Le esperienze restano comunque diverse.

 

 

Se li si osserva bene forse lo si nota, ma davvero vi sembrano giochi usciti su due piattaforme differenti (PS1 e PS2) ? Oggi una cosa del genere avrebbe fatto sicuramente scalpore; ai tempi invece il capolavoro di Soul Reaver 2 ce lo siamo fortunatamente goduto, tant’è che oggi desideriamo che queste due immense opere possano tornare in auge in qualche modo. Speriamo bene.

 

 

Come ribadito prima, Resident Evil 3: Nemesis potrebbe essere uno di quei casi da “se fosse uscito all’epoca, sarebbe stato un DLC”; in parte potrebbe essere vero, ma rimane al contempo non un more of the same, così come non lo è il rispettivo remake (del quale mi chiedo come mai nessuno abbia gridato allo scandalo come con God of War e Zelda… ma tanto ci sono stati altri aspetti da criticare e su cui accanirsi).

 

 

Altri due grandi classici che se fossero usciti oggi avrebbero visto il povero Banjo-Tooie vittima di essere un more of the same di quel capolavoro del predecessore. Inutile dirvi che, nonostante io ritenga Banjo-Kazooie superiore, il sequel aggiunge talmente tanta di quella roba da far esplodere il cervello. Una chiara e limpida dimostrazione di estro creativo pazzesco.

 

 

Chiudo col botto, proponendo tutti e cinque i Tomb Raider usciti durante la quinta generazione di console. Spero di non aver preso versioni differenti tra loro (ricordatevi comunque che il succo del discorso è un altro), ma a conti fatti anche nel caso delle avventure della bella Lara Croft, specie tenendo in considerazione che vi sono stati ben cinque episodi, vederli di questi tempi non li avrebbe probabilmente resi celebri come invece lo sono diventati nel corso del tempo. Smentitemi, in caso.

 

Chiaramente chi conosce i titoli o comunque è più avvezzo nelle questioni tecniche noterà le leggere differenze. Ciononostante gli screenshot non servono per dimostrare che queste opere siano dei more of the same e che presentino pochi  cambiamenti, quanto piuttosto domandarsi ad un primo impatto, facendo finta di non conoscerle ed averle cancellate dalla nostra memoria, chi potrebbe asserire con certezza che non siano gli stessi giochi? Eppure eccoli lì, nelle loro somiglianze e caratterizzati dallo stesso motore grafico, un elemento che muta in maniera indissolubile c’è: l’esperienza. Giocandoli, tutto si prova fuorché la sensazione di star facendo sempre lo stesso; semmai è un’evoluzione. Avrei potuto inserire ulteriori opere, tipo i due Metroid Prime, i due Shenmue o addirittura i vari Silent Hill. Fossero uscite in questi anni, chissà quante tra esse non sarebbero state tacciate di essere degli scandalosi more of the same.

I sequel diretti che possono subire modifiche radicali e sostanziali sono di solito quelli che arrivano sull’hardware della generazione successiva. Prendiamo The Last of Us: Part II e Uncharted 4: essendo capitoli rilasciati su PlayStation 4 hanno potuto vantare su una rielaborazione di elementi così ampia da risultare molto di più che un semplice upgrade dei capitoli PlayStation 3, pur mantenendo comunque la loro formula di base. Di conseguenza cambiano il feeling e il feedback restituiti pad alla mano, graficamente sono un bel passo in avanti rispetto ai loro predecessori ed ecco che non si accusa la sensazione di more of the same. Tuttavia sarebbero potuti esserlo tranquillamente, perché il ‘sempre lo stesso’ è un qualcosa che trascende dalla pura tecnica. Si potrebbero fare svariati esempi, ma ne prendo giusto due per rendere (spero) piuttosto chiaro il concetto: Crash Bandicoot: The Wrath of Cortex e Spyro Enter the Dragonfly. Il primo non è nemmeno un cattivo prodotto come si possa pensare; sul secondo, invece, stendiamo un velo pietoso. Entrambi hanno però un elemento in comune: sono effettivamente dei meri more of the same.

More of the same

Sia The Wrath of Cortex che Enter the Dragonfly – non realizzati da Naughty Dog e Insomniac – sono i due neo-capitoli delle rispettive saghe, usciti all’epoca su quella che era la nuova generazione di console. Ora, tralasciando che non siano assolutamente all’altezza dei loro predecessori (soprattutto Spyro), si tratta di more of the same perché: in primis quasi non si nota il divario tecnico (ovviamente c’è, ma è davvero minimale) e, in secundis, non ci sono reali differenze nella struttura ludica. Sembrano appunto delle copie malriuscite dei gloriosi giochi precedenti, tanto che addirittura The Wrath of Cortex condivide lo stesso tipo di progressione di Warped, con il medesimo hub e persino le abilità da apprendere riprese paro paro dalla terza iterazione della serie (con giusto la novità di poter camminare in punta di piedi per poter andar sopra alle famigerate casse di Nitro). Non che con Spyro la situazione fosse migliore (anzi); non si avverte di star giocando un nuovo capitolo della saga (che chiaramente mantiene inalterata la sua formula), quanto piuttosto a qualcosa di già visto e che nulla aggiunge all’esperienza; ‘sempre lo stesso’, appunto. Ecco il vero more of the same. Solo che Crash Bandicoot: The Wrath of Cortex non è un cattivo more of the same; è al contrario l’esempio perfetto di come non debbano essere per forza visti con accezione negativa. Spyro: Enter the Dragonly invece è la fulgida dimostrazione di come non si debba mai realizzare un sequel.

Ho preso probabilmente i casi più eclatanti, ma concettualmente tal definizione va ricercata in produzioni che non osano, non portano chissà quali reali novità e che soprattutto danno la sensazione di star giocando allo stesso identico titolo che era il loro predecessore (non ho purtroppo giocato Bioshock 2, ma credo possa rientrare tra i more of the same; ovviamente correggetemi se ho detto una castroneria). Che siano tutto sommato validi od oltremodo pessimi, non importa. Non sempre un sequel può stravolgere completamente tutto (ben venga quando lo fa, ma sarebbe impensabile poterlo fare sempre), l’importante è che si avvalga di elementi che vadano a dare una netta continuazione di quanto vissuto in precedenza. Quando ai tempi ho fatto partire Banjo-Tooie – tanto per citarne uno –, pur risultando a primo impatto il Banjo-Kazooie che tutti conosciamo, mi è bastato destreggiarmi nei suoi mondi giusto un attimo per rendermi conto che si trattasse di una nuova mirabolante avventura dello scoppiettante duo, orso e pennuta, più forte di sempre. Ma con le pretese odierne, fosse uscito oggi di sicuro qualcuno avrebbe avuto da ridire sull’operato Rare. La cosa buffa è che magari gli stessi che amano questi due giochi potrebbero essere coloro che etichettano God of War: Ragnarök come more of the same. Ironico? Forse; ma non lontano dalla realtà. D’altronde è tutta una questione di percezione, e quando esprimiamo certe critiche dimentichiamo come non fossimo così pretenziosi in passato. Ed è il motivo per cui preferisco videogiocare anziché lamentarmi di ogni singolo aspetto. Dopotutto, la passione dovrebbe essere proprio questo, no?

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Ismaele "Isma92" Mosca

Appassionato di videogiochi sin da piccolo, al punto tale da portarlo nel tempo a scrivere per circa dieci anni per il settore videoludico. Dopo aver lasciato tutte le testate per le quali scriveva, eccolo intraprendere una nuova avventura sulle pagine di Pushbutton.it, piccola realtà nata dalla sua mente e quella di due grandi compagni di viaggio, nonché cari amici: Gennaro Schiavelli e Antonio Rodo. Retrogamer incallito e musicista, ama la pizza e la cultura nipponica ed è pronto a raccontarvi e condividere tutto quello che gli passa per la testa.